Genny Di Bert
Paolo D’Orazio sin da giovane è stata introdotto nell’ambito artistico grazie allo zio Piero Dorazio, protagonista indiscusso dell’astrattismo italiano, figura emblematica di quel dopoguerra ricco di sperimentazioni che si ispiravano alle avanguardie storiche, artista che decise di implementare la devianza dalla figurazione e l’attenzione allo spazio.
Dall’effimero al progetto è stato per Paolo un percorso creativo indispensabile. Il concetto era per lui insito nella creazione stessa, imprescindibile dall’idea iniziale, dall’immaginazione personale dell’artista, dal pensiero che, tramite gestualità, riflette percorsi interiori, ricerca di segni e, soprattutto, sintesi di simbologie universali.
Dal carattere impulsivo, egli combatteva per i propri ideali sociali ed artistici. Nel suo percorso di vita ha avuto differenti esperienze lavorative e questa contaminazione di “tecniche” è stata una prerogativa della sua ricerca. E così la pittura interagiva con il design, materiali poveri si abbinavano a tessuti elaborati, la carta e la tela cercavano armonie tattili e visive. Il pensiero aveva necessità di manifestarsi attraverso la manualità.
Nella prima fase pittorica l’artista ha prodotto opere tendenti al monocromo. Le pennellate variavano a seconda del supporto, non raggiungendo mai una stesura piatta, con textures diradate o infittite. Già da allora si coglieva la tendenza a considerare i punti cromatici riferimenti indispensabili per la percezione estetica e le luci come mezzi per modulare ritmi compositivi.
Le sue opere sprigionano una sorta di energia spirituale cromatica, di kandinskijiana memoria. L’uso attento del gioco tra chiarezza o brillanza, saturazione e pienezza. Una costante sperimentazione di tonalità, purezza e luminanza. Ogni segno ha uno specifico significato e lo spazio sembra voler suggerire una percezione tridimensionale.
Appassionato di tutte le teorie del colore (Isaac Newton, Thomas Young, Hermann von Helmholtz, Ewald Hering) l’artista spesso amava sviluppare l’accordo cromatico tra colori analoghi. Nei suoi dipinti, soprattutto dell’ultimo periodo, creava zone di tinte pure che interagivano tra loro, riecheggiando il pensiero di Goethe secondo cui esistono tonalità calde (rosso, giallo, verde) di natura positiva e fredde (blu e viola) simboli di sensazioni negative ed ansie. Al riguardo, è interessante notare come la scelta di Paolo dei pigmenti usati nel corso degli anni corrisponda alle sue fasi emotive. Ad esempio, quando soggiornava in Salento, dove aveva una casa sulle rocce a picco sul mare, l’energia della natura incideva nella sensazione del colore e l’artista stendeva sulla tela i suoi gialli e verdi preferiti, combinandoli tra loro senza mai perdere perimetri di forme e segni vettoriali.
“L’arte della pittura non è destinata alla fabbricazione più o meno ingegnosa di immagini, ma alla ricerca di quegli elementi chiave della percezione visiva che generano il modo di vedere e di intendere le immagini”, dichiarava lo zio Piero. La stessa idea è stata filo conduttore della produzione artistica di Paolo, le cui tinte si influenzano tra loro creando mutamenti e interagendo sulla percezione, alla maniera di Joseph Albers, uno dei più influenti artisti e teorici del colore del XX° secolo. Non a caso proprio Albers era per D’Orazio un solido e frequente riferimento, notando l’affinità nel cogliere la sensibilità della forma e nella metodologia didattica, alla quale egli dedicò molti anni della sua vita con entusiasmo.
L’artista ha studiato con attenzione la storia dell’arte, soffermandosi sui chiaroscuri di Leonardo da Vinci, sulla luce di Caravaggio (la luminosità come spazio, simbolo, immaginazione ed atmosfera) e di Rembrandt. E poi molti autori moderni e contemporanei, dai protagonisti delle avanguardie del primo Novecento ad artisti come Mark Rothko e Sol LeWitt.
Quando egli osservava un quadro spesso lo analizzava in base alle leggi della Gestalt: vicinanza, linee di forza, andamenti ritmici, configurazione, spazialità, profondità, rapporto ombre-luci e colore. Assimilava tutto ciò che leggeva e vedeva, quello che ascoltava o pensava e poi lo rielaborava attraverso un proprio linguaggio, che nel tempo ha maggiormente definito nello stile e nel messaggio. Ed è con questo fine che egli ha realizzato anche alcune opere architettoniche e di design, preferendo l’uso del vetro, la sua trasparenza che sembra voler filtrare la realtà oggettiva da quella emozionale, una materia fragile che Paolo cercava di rafforzare colorandola, e poi, mi riferisco in particolar modo alle lampade, illuminandola. Materia ed energia. In tal modo l’artista cercava di seguire le lezioni di Rudolf Arnheim, che spesso citava, secondo cui “vedere è anche un processo attivo: infatti oltre a visualizzare un oggetto, noi vogliamo toccarlo, sentirne la superficie, afferrarlo”.
D’Orazio ha vissuto con e per l’arte, nella quale il suo mondo interiore e quello esteriore cercavano un compromesso. Con gli occhi sempre vigili cercava ovunque colore, movimento, forma e profondità. La sua realtà era frutto di rielaborazione personale, alla ricerca di una serenità che, a volte invano, ha inseguito per anni, scegliendo la creatività come fonte rigeneratrice per i suoi bisogni interiori, interessi profondi, aspettative senza limiti e motivazioni molteplici.